GIUGNO 2020

Mexico e nuvole


Il primo gol di México '70 lo segnano i bulgari. Lo incide nella storia della competizione un oscuro centrocampista col vizio del gol: Dinko Dermendzhiev, detto 'Chico' (Чико), cinquecento partite e centocinquanta gol nel Botev Plovdid, una carriera durata vent'anni. Il Nou Camp è affollato di gente venuta dal Perù, e sembra un viaggio inutile e senza speranze quando Hristo Bonev, a lungo bomber della nazione, raddoppiava, all'inizio del secondo tempo. Rabbiosa fu a quel punto la reazione dei sudamericani, che ribaltavano la partita in meno di mezz'ora. Fu una stella tra le stelle della coppa, Teófilo Cubillas, a concludere e fissare la rimonta.

2 giugno 1970, Estadio Nou Camp, León
Perù-Bulgaria



L'avventura messicana degli azzurri comincia il pomeriggio del 3 giugno 1970, in altura. Anzi, nell'abbaino del mondo, a Toluca, 2.700 metri sul livello del mare (per dare il senso della cosa: il comune più alto d'Italia è il Sestriere, a soli 2.000 metri; Livigno sta a valle, a 1.800 metri). A fronteggiarli sono gli ancor più spaesati svedesoni. La fatica è enorme e i giocatori in evidente difficoltà sotto il sole zenitale. La partita finisce con l'esser poca cosa.

3 giugno 1970, Estadio Luis Tosal, Toluca




"Tostão ricevette il pallone da Paulo César e avanzò fino a dove gli fu possibile. Trovò tutta l'Inghilterra ripiegata nella propria area. C'era anche la regina infilata lì dentro. Tostão evitò un giocatore, poi un altro, un altro ancora, e passò il pallone a Pelé. Altri tre giocatori lo sommersero nello stesso istante. Pelé fece finta di continuare il suo viaggio e i tre avversari sparirono, e lui invece tirò il freno, fece una giravolta e depositò il pallone sui piedi di Jairzinho che arrivava. Jairzinho aveva imparato a smarcarsi nei campetti dei sobborghi più duri di Rio de Janeiro: partì sparato come un proiettile nero, schivò un inglese e il pallone, proiettile bianco, superò la porta difesa da Banks" (Eduardo Galeano).

7 giugno 1979, Estadio Jalisco, Guadalajara
Inghilterra-Brasile






Alla Bombonera di Toluca, l'Italia non riesce a superare un gruppo di dilettanti israeliani vestiti da calciatori. Gli azzurri, avendo paura di perdere (sarebbe stata un'altra Corea), schiumano rabbia per novanta minuti. Sbagliano l'inenarrabile. Pagano errori dell'arbitro e soprattutto di un "guardalinee abissino" (e perciò tutt'altro che ben disposto a regalarci alcunché, scrisse Giovanni Arpino tra una riga e l'altra). Sicché verso la fine "deve salvarci Albertosi [figurina] da quella che sarebbe una beffa grottesca. La casse à épargne ha funzionato ancora. Siamo primi del nostro gruppo con quattro punti e un miracoloso golletto. Sarà micragna ma, tutto sommato, viva! Da quanti mondiali non si aveva il bene di passare il turno?" (Brera). Ce la vedremo nei quarti col México: "notte per notte aumenta la sua pazzia tifosa, le avenidas sono ingombre e decine di migliaia di automobili strepitano come un maremoto. Usciremo vivi da questa febbre?" (Giovanni Arpino).

11 giugno 1970, Estadio Luis  Dosal, Toluca
Italia - Israele




La partita del secolo (Italia-Germania) oscurò, e continua a oscurare, l'altra partita, altrettanto memorabile. Il Brasile cominciò quel giorno a lenire il ricordo ancor vivo (erano passati solo vent'anni) del Maracanaço battendo l'Uruguay in una bellissima semifinale. Pelé aveva dieci anni il giorno del Maracanaço. Quando fece il suo ingresso sull'assolato campo dell'Estadio Jalisco di Guadalajara, O Rey era già più che un monumento; aveva (in fondo) solo trent'anni; e il suo contributo alle conquiste brasiliane del '58 e del '62 era stato importante ma forse non quanto quello dell' 'estrela solitaria', Mané Garrincha.
Il gioco duro della Celeste, la tradizione, il ricordo del Maracanaço, il miglior arquero del Sudamerica, un arbitraggio tollerante non bastarono a fermare il Brasile. L'Uruguay segnò per primo. Pelé, con la calma e l'intelligenza di un sovrano illuminato, prese la partita sulle spalle. Si riveda quel che fece quel pomeriggio. Un repertorio inesauribile: l'esitazione e il passaggio quasi 'no-look' per Rivelino (replicato poi, destinatario Carlos Alberto, in finale); un dribbling irresistibile che già annuncia Diego Armando (spostamento anticipato del pallone e della direzione di corsa); una volée dalla trequarti su rilancio del portiere. "Passatemi la palla e venite ad abbracciarmi", sembra che dica ancora.

17 giugno 1970, Estadio Jalisco, Guadalajara
Brasile - Uruguay


"Col senno di poi", scrisse Garry Jenkins, "sembra naturale che Pelé e i brasiliani del 1970 arrivassero nei nostri soggiorni l'anno successivo al primo atterraggio sulla Luna. Tostao e Gerson, Jairzinho e Carlos Alberto non avevano solo il numero in comune con Neil Armostrong e il suo equipaggio. Erano, dopo Apollo 11, il secondo grande evento della nuova era mediatica".
Il gol-icona dell'evento fu segnato da colui che, della Seleçao, era il capitano: "Carlos Alberto stava arrivando in corsa, con la traiettoria intimidatoria di un siluro. Vedendolo arrivare, Pelé si volta senza fretta e appoggia il pallone verso di lui con la rilassata precisione di un giocatore di bocce. Senza bisogno di deviare, controllare o regolare il suo passo, Carlos Alberto colpisce il pallone di destro, indirizzandolo basso verso il palo destro della porta custodita da Albertosi".
Quel gol fu peraltro l'ultimo di una partita già ampiamente decisa; la Coppa intitolata a Jules Rimet trovava la sua giusta e definitiva collocazione (Zagallo e Pelé conclusero il lavoro avviato insieme nel 1958); e non c'è dubbio che la fase della storia del football apertasi nel secondo dopoguerra conosceva all'Azteca un simbolico e spettacolare epilogo. Già. Perché, nonostante la magnificenza del gioco, quel Brasile non rappresentava il futuro "luminoso e luccicante" del calcio, e la leadership culturale fu immediatamente ripresa dall'Europa. In Germania, nel '74, la Seleçao porterà un gruppo di giocatori la cui qualità complessiva non poteva competere con l'efficienza fisica e tattica delle migliori rappresentative continentali: dal confronto con l'Olanda usciranno letteralmente a pezzi. O Rey, nel frattempo, era traslocato direttamente nella leggenda, spendendo il suo tramonto di atleta nel tentativo di evangelizzare l'America. Dal canto loro, gli italiani si accapigliarono a lungo per i soli sei minuti che Valcareggi concesse a Rivera nella finale (persino Brera fu costretto ad ammettere che si trattava dell'unico fra i nostri capace di imbeccare da lontano Boninsegna e Riva, controllati 'a zona' dai soli due uomini di un reparto difensivo che naturalmente non contemplava la presenza di un 'libero'); alla lunga, tuttavia, ebbero nel cuore i cosiddetti messicani, che persero la finale ma avevano vinto contro i tedeschi la 'partita del secolo'.

21 giugno 1970, Estadio Azteca, Ciudad de México